I Giacobini a Susa dal dicembre del 1798 al maggio del 1799

Si scoprirono le simpatie giacobine: tra i filo francesi c’erano molti ecclesiastici, in particolare quelli appartenenti agli ordini monastici, per i quali la repubblica era sinonimo di libertà e di maggior giustizia sociale. Da questi i francesi furono ben accolti, ma si illusero per breve tempo; la dura politica anticlericale di Parigi li farà passare all’opposizione. Il clero nella valle di Susa, sebbene non in maniera rilevante come nel resto del Piemonte, era allora il centro promotore delle idee repubblicane: tra i sostenitori più accesi del nuovo regime vi era il prete Fava, biellese e professore di retorica a Susa e il prete Gardini di Acqui, anch’egli insegnante nella città. I loro nomi vengono resi noti dalla “Nota degli individui abitanti nella città e terre della provincia di Susa, che apertamente si manifestarono contrari al governo di S.M., tanto con scritti, quanto con una condotta favorevole a principi rivoluzionari” e facente parte degli elenchi stilati nel 1799 dal governo ristabilito dagli austro‑russi affinchè questi uomini venissero arrestati e processati. Di questo argomento tratta un articolo di G. Vaccarino.

Del prete Fava, che fece parte della municipalità, si dice:

Fuggito co’ francesi, uomo senza religione, di eloquenza sublime: fece due discorsi al pubblico: il primo all’occasione dell’innalzamento dell’albero, ed il secondo alli 21 gennaio: fanatico perfetto per le nuove opinioni, conosciuto per tale già tre anni orsono dai professori del collegio di Tortona.

Il secondo è così definito:

Uomo astutissimo e pericoloso per la sua ipocrisia. Partitante de’ francesi ha fatto un discorso al pubblico alli 21 gennaio all’occasione dell’abbruciamento di un trono di carta. Rinunziò a tutte le funzioni di chiesa, alle quali assisteva avanti la rivoluzione. Si assentò da Susa al principio di maggio ed ora si crede ad Acqui.

Tra gli altri giacobini è segnalato il cistercense Costamagna, priore del monastero della Novalesa; il frate Soleri, che con il priore vestì l’abito giacobino e si diede ad una vita dissipata e libertina; i minori conventuali Bruna e Villa. Il primo considerato:

Uomo pericoloso per essere di gran talento, astuto, circospetto, affettando modestia ed innocenza; non vestì l’abito giacobino, ma è sempre stato gran partitante del governo repubblicano; il suo carattere approssima quello dell’infrascritto prete Gardini. In caso di arresto devesi osservare di non confonderlo con un altro suo fratello del medesimo ordine, uomo di ottimi costumi e sentimenti.

Del secondo si dice:

Porta delle mura di Sant’Ambrogio. Disegno a matita e inchiostro recante la scritta: “Santo Ambrogio in Piemonte”, conservato nel Museo Viviant Denon

Porta delle mura di Sant’Ambrogio.
Disegno a matita e inchiostro recante la
scritta: “Santo Ambrogio in Piemonte”,
conservato nel Museo Viviant Denon di
Chalon-sur-Saòne (1810). Eseguito da
Antoine Fèlix Boisselier (1790-1850).

Depose l’abito di S. Francesco: si fece arruolare nella guardia nazionale e ne fece il servizio. Diceva la messa vestendosi degli abiti sacerdotali sopra quelli da giacobino. Costui in sostanza è un pazzo più scandaloso che pericoloso.
È fuggito coi francesi in Brianzone

Come si può osservare il frate Villa si era arruolato nella guardia nazionale, infatti il comitato degli affari interni aveva stabilito con una lettera del 13 nevoso anno VII (2 gennaio 1799):

Vi preveniamo, cittadini, che intanto il governo provvisorio non ha stimato di far menzione del clero regolare e secolare nello stabilimento della guardia nazionale appunto per lasciar libero il campo a quegli ecclesiastici che, compatibilmente coll’esercizio de’ doveri della chiesa, volessero segnalare il loro zelo per la patria. Vi invitiamo quindi, a non imporre ai medesimi obbligo alcuno, ma bensì a manifestare il vostro gradimento a quelli che si presentassero a servir la patria spontaneamente ed a riceverli ne’ ruoli.

In valle, a Chiomonte, si distinse il curato del paese, don Masset, autore di un’opera contro il re e la chiesa, giacobino arrabbiato, grande amico del municipalista Bompard accusato di aver calunniato i preti “dicendo mille abominazioni” e sospettato di essere una spia dei francesi.
Nella bassa valle, ad Avigliana, il curato Giannotti predicava durante la messa i vantaggi della libertà ed accusava i nobili di tirannide; a Rivoli il prete Belmondo, che in passato si era rifugiato a Milano ed aveva preso parte a quella spedizione, miseramente fallita, che nell’aprile del 1798 aveva tentato l’invasione del Piemonte dalla parte del lago Maggiore, non era da meno e predicava la libertà repubblicana.
Ancora a Rivoli, appena giunti i francesi, il vicario Morocco organizzò un catechismo repubblicano in cui insegnava ai giovani l’odio verso i tiranni, “facendoli ogni sabato prestare giuramento di così eseguire”.
Il vicario Morocco meritò il titolo di “tiranno di Rivoli”. C’era anche il teologo Paracca, ex‑rettore delle scuole, il quale già prima della rivoluzione, nel recitare un panegirico di S. Rocco, nella confraternita a lui dedicata, “traendo opportunità dal fatto che detto santo aveva abbandonato il principato, declamò più volte “… a basso il trono, a terra i scetri e le corone”.
Il parroco di S. Ambrogio, don Vittorio Bertini, soleva narrare con brio le imprese e i successi dei francesi, che nessuno avrebbe potuto vincere, divulgando scritti giacobini e segnalandosi nel pubblico voto di riunione alla Francia.
Concludendo, si può notare con il Vaccarino che, sebbene gli ecclesiastici non figurino tra i giacobini di Susa in misura rilevante rispetto alle altre province, essi appaiono comunque come il centro promotore dello spirito ribelle.
Fa riscontro alle simpatie rivoluzionarie di questi sacerdoti, l’atteggiamento dei canonici della cattedrale di cui la municipalità il 29 gennaio 1799 scriveva:

Siccome i cittadini canonici di questa cattedrale col pretesto che l’attuale forma di governo possa portare un attentato alla fede cattolica, abbiano col vincolo del giuramento fatto fra di loro una vicendevole promessa di opporvisi e a tal fine procuravano di introdursi nelle cariche e società, considerando ciò dannoso per la causa della libertà e che può con l’andar del tempo avere delle funeste conseguenze a pregiudizio della pubblica quiete come diametralmente opposte allo spirito democratico. Considerando che questa municipalità ha volutamente giurato di impiegare tutti i mezzi possibili per la causa pubblica e di vegliare sulla sicurezza pubblica allontanando per ciò tutti li nemici della patria. Considerando che li suddetti canonici debbono venir considerati come nemici della patria e della pubblica quiete ha deliberato di doversi prendere le opportune informazioni al proposito.

In seguito il 31 gennaio 1799 la municipalità deliberò:

Di prescindere da ogni misura contro i canonici di questa cattedrale, ma intanto di vegliare attentamente sulla loro condotta e prevenire e provvedere vigorosamente all’occorrenza, che dai medesimi sia operata qualche insidia alla libertà e sicurezza della patria.
Intanto sono vietate tutte le adunanze e società di qualunque natura, che non siano assistite dalla legge. Perciò i predetti canonici non potranno congregarsi senza l’intervento di un ufficiale municipale.
La quale deliberazione avrà luogo per i padri cappuccini, conventuali e di S. Francesco e confraternite erette in questa città.

Per il resto i sospetti di giacobinismo sono per la maggior parte avvocati, medici e artigiani fra i quali troviamo spesso dei parrucchieri, notoriamente chiacchieroni e per questo, forse, più sospettati che colpevoli. Sono da segnalare fra gli appartenenti all’esercito (nelle cui file i giacobini sono pochissimi)

Giuliano Pietro:

Disertore delle regie truppe, graziato da S.M., giovinastro discolo. Costui in una assemblea, così detta patriottica, tenuta li 10 febbraio, nella quale si trattava se fosse più vantaggioso per il Piemonte l’essere unito alla Francia, oppure di esistere in qualità di Repubblica piemontese, avendo sentito il bravo avv. Richard opporsi acremente a detta riunione, allegando che in questa maniera non vi sarebbe più stata religione in Piemonte e credendo esso Giuliano essere opera dei preti quanto diceva quest’onesto garzone, avv. Richard, gridò ad alta voce: “à bas les calottins”. Si crede trovisi ora in Brianzone.

E. Maurini, già capitano nel reggimento di Oneglia:

Dopo la soppressione del suddivisato corpo, domiciliatosi in Avigliana, venne nominato dal generale Louis per aiutante maggiore della Piazza verso la metà di dicembre. Costui, all’abbruciamento dell’effigie del nostro veneratissimo Re, fatto per istanza ed ordine del conte Vivalda, ebbe l’ordine di pronunciare queste parole: “Que ce Roi sent mauvais, il pue comme une carogne” facendo allusione al cattivo odore che tramandava la tela colorita abbruciata.

Infine, tra i laici, il più acceso giacobino era l’ex nobile, il conte Vivalda di Foresto:

Vassallo ingratissimo, ufficiale disertore del reggimento Chablais, fu graziato dall’augusto padre di S.M. regnante: di nuovo ammesso al servizio in qualità di sottotenente nel reggimento d’Acqui, ottenne o gli fu data la sua dimissione quattro anni sono. Passò in Francia, non si sa se con permissione, o senza di essa, in compagnia del francese generale Puget: ritornò in Susa per passare nell’allora sedicente ed ora estinta, repubblica Cisalpina, la quale ha servito in qualità di capitano nella legione Pollana.
Indi passò in Nizza di Provenza col suddetto generale Puget. Ritornò finalmente in Susa nello scorso inverno con uniforme di cavalleria piemontese: fece istanza al comandante della Piazza di permettergli di erigere alberi di libertà innanzi alla sua abitazione in città e alle due sue case di campagna e di gradire l’abbruciamento volontario de’ suoi titoli e pergamene. Con civiche e patriottiche espressioni, invitò la Municipalitá ad assistere a questa funzione, nella quale, per ordine suo, fu abbruciato il ritratto del nostro carissimo sovrano, da lui denominato tiranno. Si avverte che il suddetto conte di Vivalda ha sempre avuto la reputazione di un mentecatto in tutti i luoghi ove ha servito ed è soggetto, di quando in quando, ad una specie di alienazione di mente.

Susa, Palazzo Vescovile. Camera da letto in cui soggiornò Papa Pio VI

Susa, Palazzo Vescovile. Camera da letto in cui soggiornò Papa Pio VI

In tutto, ci riferisce il Vaccarino, su un totale di 65.004 abitanti della provincia di Susa, i giacobini erano 375, pari al 5,76%. A raffreddare le simpatie giacobine del clero, sempre nel 1799, provvide la politica francese con la deportazione in Francia di Pio V I.
Il 26 aprile, febbricitante, il Papa sostò per alcune ore in Sant’Ambrogio, all’Osteria della Luna Piena, una malfamata locanda posta all’ingresso del paese. L’oste era un disonesto: pretese un franco per ogni uovo consumato e per alcune ore di sosta in alcune sue stanzacce, il doppio di quanto avrebbe potuto guadagnare in un giorno. Il commissario Colli, rivolese, impedì al cardinale Gardil, che si trovava alla Sacra di S. Michele, di venire a riverire il Pontefice.

Così racconta monsignor Baldassarri, prelato dell’Arcidiocesi di Fermo, che accompagnava il Papa:

Sul far della sera del venerdì 26 aprile, giungemmo a Susa, munita di guarnigione piemontese e di un comandante francese, manieroso e discreto. Questi sottentrò all’aiutante Colli nel sovrastare alle cose del Papa. Fuori della città attendevaci uno squadrone di cavalleria che tributò al Papa gli onori militari e, tra molta folla di devoti spettatori, lo accompagnò fino al vescovado. Erano quivi alla porta il V escovo in abito prelatizio e i canonici con veste da coro; Pio V I venne portato in un comodo e decente appartamento nel palazzo vescovile.

Salita del Pontefice Pio VI al Moncenisio il 30 aprile 1799. Incisione di P. Bonato su disegno di G. Beys

Salita del Pontefice Pio VI al Moncenisio il 30 aprile 1799. Incisione di P. Bonato su disegno di G. Beys

Il comandante della piazza nel vederlo così sfinito e cadente, si mosse a pietà e, nonostante gli ordini contrari che aveva ricevuto, concesse che da Susa non ci partissimo che il 28. Ci manifestò ancora, candidamente, come non fosse vero che dovessimo andare a Grenoble e che, secondo gli ordini a lui pervenuti, il luogo ove il Direttorio confinava il Papa, era Briançon. Nella mattina del 27, con perfetta tranquillità d’animo, diede udienza al vescovo di Susa, accogliendolo con paterna benevolenza e ad alquante persone ecclesiastiche e secolari, fra cui il comandante della piazza. Con audace linguaggio, il generale Grouchy ci aveva fatto dire, dapprima a mezzo del maggiore Campana, poi ci aveva detto egli stesso, che da Torino dovevamo andare a Grenoble; il che era cosa da lagnarsene, sia per l’ingiuria, sia per il molto scapito che ad un Papa, ridotto e vivere di limosina, arrecava quel mutamento improvviso di viaggio. Si trattava intanto di intraprendere l’alpestre ed orrido cammino di Briançon. Per il Pontefice ci provvedemmo di una portantina che, benchè brutta, grande  e pesante, era buona a preservarlo dal rigore dell’aria e della pioggia. Prezzolammo 16 uomini che si avvicendassero nel portarlo ed un gran numero di muli per i bagagli.

Il 28 aprile Pio V I giunse ad Oulx, si fermò presso l’Abbazia fino al 30 e, con grave disappunto dei francesi, venne accolto con affetto dalla popolazione locale.