Sentieri Celesti – Via crucis a due

Una Via crucis è sempre a due. Presuppone una dualità che all’origine è quella del Cristo con il suo cammino di compimento, che è altro da lui, non proviene dalla sua ma dall’Altrui volontà. Il cammino è la Via, un procedere che è divenuto nel corso del tempo paradigma dell’esperienza umana, universale e perenne, di dolore e morte, di fede e di speranza. E la Croce è il simbolo manifesto di una dualità.

La Croce è cerniera profonda ed emblematica, cardine su cui ruota una possibilità di apertura o altrimenti di redenzione, è pietra angolare su cui si costruisce una nuova umanità ed è anche il mezzo con cui si compie l’atto supremo di offerta, di dono appassionato e incondizionato di sé. Il donare contiene una gamma vasta di considerazioni che ci conducono filosoficamente ad avvicinare l’atto artistico, nel momento in cui è foriero di nuovi segni, opere che recano inedite letture e interpretazioni del mondo, offrono il sentire umano in maniera palpabile, sotto forma di materiali e tecniche più o meno usuali riscattati dal fare, che sono un momento prima intuizione, idea, impulso creativo e spirituale. “L’opera d’arte dona in quanto ci strappa all’abituale e ci rimette nella condizione di percepire nel suo originario fenomenizzarsi”, scrive il professore di estetica all’Università La Sapienza, Pietro Montani, argomentando, in una libera parafrasi heideggeriana, altri due punti interessanti sul carattere donativo dell’opera d’arte. Il fatto che essa ha “il potere di presentarci un inizio”, di fatto introduce la categoria del tempo che ci trova però sempre un pochino a lato, non in presa diretta con questa inizialità. “Tuttavia l’opera d’arte ci restituisce, per quanto possibile, un’esperienza dell’inizio, un essere incoativo: donde il nostro stupore nel sorprenderci in un tempo dato e insieme, e senza preavviso, al suo inizio”. Strapparci all’abituale, percepire una dimensione aurorale, allusiva e simbolica, e provocarci facendo memoria di un eterno inizio, è ciò che accade al cospetto dell’inedita Via crucis dipinta a quattro mani da Anna Branciari e Antonio Carena, dunque anch’essa ricalca la traccia di una forma duale di esperienza, nella componente ideativa e in quella fattuale, realizzativa, ma non solo.

È anche dono, in sé e per la collettività, che ricostruisce una vicenda accaduta 2007 anni fa, illumina su determinati momenti che si sono cristallizzati in una iconografia ormai consolidata nei secoli, che richiedono, come ogni fatto accaduto un tempo, di riattualizzarsi sempre, perché possano essere compresi ancora oggi e in questo accadere essere veri, umani. Il fatto poi che i due artisti hanno usato le tele, i colori acrilici e alla nitro, l’aerografo e i pennelli sono una dimostrazione in più dell’inverarsi di un’astanza, nell’assumere la concretezza e l’evidenza del manufatto, perché i fatti raccontati siano tra noi. È una Via crucis che include nella sua ideazione una diversa impostazione metodologica che non riguarda la condizione abituale di lavoro di un artista alle prese con una committenza, risolta nel chiuso dello studio. Al contrario la Via crucis di Anna Branciari e Antonio Carena ha richiesto una non convenzionale suddivisione dei compiti, assecondando le declinazioni stilistiche che sono proprie ad entrambi, senza forzature o adattamenti impropri al tema e senza dar luogo a gerarchie di valori. Chi sono i due artisti? Antonio Carena, esponente dell’Informale italiano, teorizzato da Michel Tapiè, dipinge a partire dagli anni cinquanta, portando ad uno svelamento progressivo le impalcature fittizie sul concetto di rappresentazione in pittura. Il quadro è, per l’artista, esemplare linguisticamente autosignificante proprio in quanto presenta, a partire dagli anni sessanta, un cielo dalle nuvole barocche, alla Tiepolo per intenderci, con il gusto per la bellezza dell’artificio, concetto di spazio infinito che contraddice se stesso, presentandosi di volta in volta nelle compromissioni più inattese. Egli coltiva la complessità e artificiosità della pittura, con gli strumenti di un pittore e di un grafico, e anche di un artigiano e verniciatore di carrozzerie.

Diversamente, Anna Branciari ha abbracciato una filosofia più interstiziale, e memore delle lezioni del suo maestro Ivo Pannaggi, protagonista del futurismo italiano, sul meditato rapporto tra la forma e il colore, ella fa correre dinamicamente la linea che quasi arabesca, scrive in punta di pennello le narrazioni figurali che paiono sedimentarsi sulla tela per decantazione progressiva di valori, di ripensamenti, di ricordi. Di lei lo scrittore e giornalista Giorgio Calcagno ne ha dato un ritratto molto intenso: “Anna Branciari è nata a Macerata, in una fra le regioni più dolci d’Italia, la Marca di Gentile da Fabriano e di Raffaello. Quando, giovanissima, vinse il concorso per l’insegnamento, non sapeva nemmeno dove fosse Susa, la città in cui le avevano assegnato la cattedra. E ha saputo portare, fra le strettoie della Dora e le rocce degli antichi Galli Cozii, il segno della sua terra, dove si è posata più leggera la mano di Dio”. I due artisti hanno offerto una visione della Via crucis contestualizzata agli inizi del ventunesimo secolo, impaginando su piani diversi, le quintessenze del loro operare artistico. Antonio Carena dipingendo cieli che illuminano di una luce mistica le azioni essenziali compiute in ogni tela. Azioni che provengono da presenze figurali senza volto sbozzate nel colore da Anna Branciari, che non distraggono nella loro identificazione didascalica, ma rilanciano al senso del loro agire, carico di pathos, a volte intensificato dai toni luministici dei cieli e a volte dai colori a scacchiera del lembo di terra su cui poggiano i piedi. Non sono lembi di terra multicolore, nè pavimenti, ma piattaforme metaforiche della dimensione dell’accoglienza umana. Non sorreggono. Condividono il messaggio di Dio. Un’intensa rivisitazione di un dramma, che è divenuto rito e che incarna le problematiche di un’umanità che forse non ci riesce, ma tuttavia prova ad ascoltare il silenzio, un silenzio che manda temperamentali bagliori. È un’interessante partitura a due questa Via crucis, dove si è invitati a non perdere di vista ciò che accade in alto e in basso di ogni “stazione”: la condanna a morte, il carico della croce, le tre cadute lungo la via, l’incontro con un gruppo di donne gerosolimitane, col Cireneo, con la madre Maria e con la Veronica, la spoliazione delle vesti, la crocifissione, la morte, la deposizione dalla croce, la sepoltura. Per ognuna di esse, il cielo è diverso. Le conformazioni dei cumuli di nuvole, a volte, non ci sono proprio, e la volta celeste è tersa e serena in accordo con il senso dell’accadimento. Ma, in altre scene, invece, i cumuli, i cumulinembi, gli strati, gli stratocumuli, gli altocumuli, gli altostrati, i nimbostrati, i cirri, i cirrocumuli, i cirrostrati e gli altocumuli, sono minacciosi, variano dal grigio chiaro a tonalità livide, violacee e quasi rossastre. Sono nuvole che parlano del Dramma, in maniera fin troppo esplicita, addirittura prendendo la forma ben riconosciuta della croce, come nella “stazione XI”. Sono diventate la temperatura visiva del sentimento cui fa da contrappunto, nella parte inferiore delle scene, il senso plastico delle figure rappresentate, dalle quali promana un immoto silenzio. Sono figure non soggetti. Non insistono a rivendicare alcunché di individuale, amano invece stare acquattate nella sintesi di forma-colore, nei gesti misurati ma precisi, scanditi in ogni parte per meglio raccontare con aderenza il fatto accaduto. I due artisti aspirano all’assoluto, dunque non a una storia che sia aneddoto, e in quanto appartenenti ad una cultura postmoderna che reinterpreta e mescola tradizioni filosofiche diverse, a una metastoria che sia incarnazione e manifestazione di un’idea superiore – la Via, la Grazia – che segna la continuità fra il prima e il dopo Gesù di Nazaret. Ecco perché l’ambientazione vagamente da interior design, con mattonelle colorate, che a volte seguono una centralità prospettica coincidente con il protagonismo assoluto della Croce, e altre volte fuggono in direzioni laterali, quasi in sospensione leggera e aerea come tappeti volanti, mischiano con disinvoltura il passato e il presente.

La tradizione iconografica delle Vie crucis pittoriche, che risale al beato domenicano quattrocentesco Alvaro di Cordova che per primo codificò in senso stretto questa sequenza di soste oranti o “stazioni” a partire dal ritorno da un suo pellegrinaggio in Terrasanta, annovera manoscritti miniati, scene affrescate, teatri in figura dei sacri monti3, fino a includere uno dei maestri del “gran nuvolare”, già citato in questo testo, Giandomenico Tiepolo, il quale ebbe modo di cimentarsi più volte con il tema della passione e morte di Gesù, dalla giovanile Via crucis di San Polo a Venezia, fino alle 14 tavole incise ad acquaforte di proprietà del convento dei Frati Minori Cappuccini di Lovere.

Storicamente più vicino a noi è invece Lucio Fontana, il maestro dei tagli e dei buchi inferti alle tele in cui la realtà fenomenica s’introduce nell’assoluto del quadro. L’artista realizzò nel 1947 una Via crucis di grande effetto coloristico e di drammaticità barocca, composta da 14 opere in ceramica riflessata, realizzate al rientro dall’Argentina, poco prima dell’elaborazione del primo Manifesto Spazialista. In nessuno di questi esempi, però il cielo è mai stato coprotagonista degli eventi raccontati. Ma noi sappiamo, come ricorda uno dei massimi contemplatori di nuvole, Gavin Pretor-Pinney che “Nuvole e cristianesimo sono sempre andati di pari passo. I riferimenti biblici abbondano. Nell’Esodo, Dio appare sul monte Sinai avvolto in una nube che a un tempo lo nasconde e ne rivela la presenza; inoltre, il Signore guida attraverso il deserto gli ebrei liberati dalla cattività egiziana da una «colonna di nube»: in tale forma li precede nella marcia, si ferma al momento di accamparsi e si solleva nell’aria quando giunge l’ora di riprendere il cammino. Secondo gli Atti degli Apostoli, Gesù viene accolto in una nube durante l’ascesa al cielo seguita alla Resurrezione, mentre il Transito della Beata Vergine Maria di san Melitone di Sardi descrive la Madonna che sale in paradiso sorretta da una nuvola, dopo che gli apostoli sono stati condotti al suo letto di morte con il medesimo mezzo di trasporto «aereo». Nella mitologia ebraica, «Bar Nifli», ovvero «Figlio di una Nube» è un appellativo del Messia. Il Messia stesso, dichiara il libro di Daniele, apparirà «sulle nubi del cielo»”.4

Le quattordici stazioni oranti di Anna Branciari e Antonio Carena richiedono un impegno non comune nel guardare, comprendendo nel senso etimologico di cum «con» prehendere «prendere», vale a dire accogliendo insieme, nell’interpretazione e nella visione, i piani dell’accadimento. Terra e cielo vivono all’unisono e completano, come un’endiade, ognuna delle scene sacre. “In questa luce, la Via crucis, pur nella sua sacralità devozionale e nell’identità cristiana della sua trama, può diventare una parabola che parla a tutti, evocando la prevaricazione del potere e l’ingiustizia, l’odio e l’amore, la vita e la morte, il dolore e la speranza”.5

Ivana Mulatero

Critico d’Arte